mercoledì 8 giugno 2016

Da qui, Ali.

















Avevo 9 anni.
Me lo ricordo bene quell'incontro di pugilato che davano alla tele in bianco e nero di casa. C'era un pugile fortissimo che dava addosso con incredibile potenza ad un altro un poco più alto, il quale si difendeva appoggiato alle corde, chiuso in una guardia attenta e agile. Questo per 8 round (se vi capita, non perdetevi "When we were kings", il bellissimo film che racconta quel match). All'ottavo round, improvvisamente, l'altro, il pugile con i calzoncini bianchi sembrò accendersi di un fulmineo furore e partì velocissimo all'attacco. Ancora oggi ricordo perfettamente l'espressione attonita di George Foreman, mentre, colpito, faceva una bizzarra, bellissima giravolta attorno all'arbitro e cadeva giù, al tappeto, ko.
L'altro era Cassius Clay.
Muhammad Ali, the Greatest, il più grande.
Davvero è stato il più grande e anche il più bello e il più simpatico. In uno sport durissimo, dominato da duri, ha dimostrato che grazia, velocità, intelligenza e coraggio, a volte vincono.
Nel 1996 ho pianto vedendolo ricevere la Medaglia d'oro che aveva vinto a Roma alle Olimpiadi del 1960 e poi smarrito. Era già malato di parkinson. Attorno a lui si fecero i campioni del Dream Team, la nazionale USA di basket. Un gruppo di ragazzi giganteschi che si congratulavano, scherzavano, abbracciavano quell'uomo fragile, in camicia rossa.
The Greatest.
Ciao Ali.

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